Eric Baret

La morte

3^mè  Millénarie n. 65 - Traduzione della Dr.ssa Luciana Scalabrini

 

D: Mi piacerebbe sentire qualcosa sulla preparazione alla morte, sul suo senso, sul modo in cui si potrebbe prendere per affrontarla. E’ una domanda troppo pesante per voi?

R: No, è leggera. Non c’è scelta. Si vive esattamente come si muore e si muore come si vive. Se si vive nella paura, si muore nella paura. Se si vive in modo disponibile, si muore in modo conseguente. Dimenticate la morte e datevi apertamente alla vita. Quando avete l’opportunità di sentire la paura, dite grazie. Se la provate ora, non dovrete subirla più tardi sul letto di morte. Lasciatela parlare sensorialmente. Voi non avete paura, voi sentite la paura. A poco a poco si svuota. Quando vi capita di avere paura, se tentate con certe tecniche di minimizzarla, la rincalzate un po’ di più ogni volta ed essa vi raggiungerà al  momento della morte.

Vivere disponibili. La morte diventa un non-avvenimento e non ci pensate più. Non è necessaria nessuna conoscenza. Evitate di leggere il libro tibetano dei morti. Non rimandate più la vita preparandovi alla morte. Inutile entrare nelle fantasmagorie religiose, culturali o allora, se vi sembra indispensabile, fatelo, ma avendone coscienza che è una fantasia. Non c’è bisogno di preti né di conoscenze esoteriche.

Morte alla proprie attese, alle proprie angosce, alle proprie inquetitudini. E’ questa morte che è importante. Se questa morte prende veramente corpo in voi, constaterete che la riflessione sulla morte del corpo non può presentarsi.

La vostra cultura è localizzata nella vostra memoria e non è impossibile che, secondo l’età in cui partirete, la vostra memoria sia intaccata dagli anni.  Tutte le cose che avete accumulato, tutto ciò che avete letto,tutte le tecniche e le esperienze romantiche a cui vi siete dati, visto il deterioramento del vostro cervello, non vi saranno più possibili. Quindi tutte le vostre preparazioni sono inutili e non c’è niente da sapere.

La disponibilità al presente vi accompagna in ciò che è importante.

Tutte le riflessioni che potete fare sul tema sono solo una memoria. E’ un ammasso d’informazioni che avete appreso alla televisione o eventualmente assistendo amici morenti. E’ su questo accumulo di nozioni errate che basate la vostra idea di morte.

Dimenticate il grande maestro, il lama, tutte le persone che vorrebbero assistervi.La famiglia che s’ostina a piangere, le persone che dicono di aiutarvi e sono tristi sono una calamità. Voi morite tranquillamente, solo, su di un marciapiede o su un letto d’ospedale. Non c’è nessun bisogno d’essere circondato. Morire semplicemente, come si vive, liberamente.

Se la situazione comporta che la vostra famiglia in lacrime sia lì, bisogna accettarlo. Se il suo cattivo karma vuole che un lama tibetano persista a volervi venire in aiuto, o che un prete cattolico tenga a benedirvi, lasciatelo fare.

Ne hanno bisogno per la loro sopravvivenza psicologica.

La loro agitazione ritualizzata permette loro di rimandare la loro paura. Ma queste azioni psicopatiche non vi toccano affatto. Niente vi può aiutare e questo è la meraviglia, perché niente è necessario. Come la sera il corpo muore progressivamente nel sonno, il pensiero scompare, la percezione se ne va. Le persone che sono felici di vedervi partire possono restare. Quelli che sono tristi devono essere allontanati dal capezzale di un morente.

E’ una mancanza di rispetto, una mancanza d’amore essere afflitti.

I vostri amici veri gioiranno quando sapranno della vostra morte. Ciò che diciamo ora non è rivolto a tutti. Lo Yoga è l’arte di morire. Quando lavorate col corpo, imparate a morire. Non farlo a livello simbolico, ma in pratica. Imparate a vivere, è la stessa cosa.

 

D: Se capisco bene, non è necessario essere coscienti nel momento della morte.

R: Potete scegliere di ricevere un colpo di baseball sulla testa, d’aver un incidente in auto o di essere obbligato a prendere droghe per lenire il dolore che vi sarà intollerabile? Cosa che inevitabilmente diminuirà il vostro livello di sensibilità cosciente? Non c’è scelta. Non ci si prepara alla vita, si vive semplicemente. Non avete niente da conoscere su di voi. Non è necessario sapere a cosa dovete fare fronte domani, voi lo vedrete. Prevedere se sarete tristi, pieni di paura, se la vostra casa brucerà, se ci sarà la guerra, se sarete in salute o malato. Questo sapere è inutile. Perché caricarsene?

Affrontare la vita momento per momento. La cosa più straordinaria è quello che succede nell’istante.

Come posso interessarmi a ciò che succederà domani? E’ una stupidaggine pensare al dopo. Ora è troppo ricco per lasciarmi lo spazio di fantasticare su ieri o su domani.

Quando vi siete davvero dati alla sensibilità, il domani non esiste. La vita presente è troppo bella, troppo intensa, troppo piena per avere l’occasione di scivolare a domani, a un futuro, a una preparazione. Non si prevede niente. La sola vera preparazione è la disponibilità.

Nessuna morte è ideale, questo non è che nei romanzi. Morire con le gambe incrociate, diritti, coscienti… Non dico che a volte questo non capiti, certo è meraviglioso. Ma cosa non è meraviglioso? E’ la nostra storia che giudica, che commenta, che dice: “ è una bella morte o è una morte terribile”.

Che ne sappiamo? Che sapete della persona che  muore nella sofferenza, sotto tortura, nella difficoltà, urlando? Sapete se l’istante dopo, quando il suo corpo è finito, non è tutto lì per lui? Che ne sapete di quello che muore serenamente, in una specie di sogno prendendosi per un buddista? Sapete se va davvero a incontrare tutte quelle entità che dovrebbero aiutarlo a migliorarsi in una prossima vita, un po’ più nella seguente e in ogni vita sempre più, poi dopo 950 vite diventate un bodhisatva. Tutta questa fantasmagoria è dovuta a quella paura di morire. Come si può pretendere di sapere ciò che è davvero preferibile? Quello che è giusto è quello che accade. La morte cosciente è molto bella. I praticanti di arti marziali conoscono bene Tesshu Yamoaka, quel grande maestro di Kendo che all’inizio del secolo è morto seduto con il ventaglio in mano. Tanaka seiji, suo discepolo ne ha composto un’incisione pubblicata in alcuni libri sull’arte del combattimento. Alcuni istanti prima della sua morte, aveva convocato i suoi allievi dicendo loro: “perché sento meno rumore durante il vostro allenamento, meno grida?”; gli allievi risposero che era per rispetto per i suoi ultimi momenti. Allora li riprese spiegando che se volevano davvero rispettarlo, bisognava che si attaccassero più forte, più duramente. Poi, dopo aver dato questo ultimo consiglio, quando sentì le urla degli attacchi,  morì. Alcuni muoiono così. E’ un simbolo meraviglioso. Questo non si prepara.

Se la vita vi porta a morire tranquillamente, va molto bene, ma se è nella violenza, bisogna totalmente far fronte. Non smetterete di battervi dicendo : “ ora morirò tranquillamente”, no, si  combatte fino all’ultimo momento. Morire con le armi in mano o morire seduti, è uguale. Su di un altro piano, quando diventate disponibili alle vostre paure, alle vostre ansie, voi preparate la vostra morte. Vi preparate a dire si, ad accettare. Ma non fatelo per questo, bisogna farlo per la gioia di farlo.

 

D: Voi dite che lo yoga è l’arte di morie. In che modo il lavoro corporale prepara alla morte?

R: Voi cambiate il corpo. Nella sensibilità non c’è corpo. Solo quella massa di energia è presente, il corpo scompare in quella radiazione. Lasciate che gli organi dei sensi diventino vibrazione. Tutto ciò  accade nel vostro silenzio, nella vostra tranquillità. Il corpo muore ad ogni istante. Ad ogni espirazione, muore totalmente, ad ogni inspirazione si ricrea. In seguito non resterà che l’espirazione, non ci sarà più inspirazione.

Quando avete frequentato scientemente questo lasciar-andare dell’espirazione e sapete darvi totalmente a questo riposo, a questo vuoto, a questa unità dopo l’espirazione, sperimentate veramente l’arte di morire. E’ il passaggio chiaro. L’inspirazione verrà su un altro piano. Ma queste sono parole: l’arte di morire, l’arte di vivere. Non ci si deve attaccare a ciò che si dice. Non cercate di comprendere ciò che qui è formulato.

E’ certo che se pretendete di essere e possedere una qualunque cosa, è difficile lasciar andare tutto. Quando capite che non avete niente, non siete niente, non fate più fatica a partire.

 

D: Ma quell’attaccamento all’altro, alla vita, al corpo, a essere qualcuno o niente…

R: Non c’è niente da cercare, la vita si gioca in voi. Per un certo periodo avete bisogno di sentirvi giovane e bello, forte , intelligente, ricco, colto , spirituale, buddista o altro. Come vi è necessario un certo tempo far parte di un club di foot-ball, di scouts, d’essere brillante a scuola, d’avere quell’amico, di fare collezione di francobolli. Un giorno non vi identificate più in un collezionista di francobolli. Non vi percepite più come membro di questo o di quello. Con l’andar del tempo constatate che inevitabilmente tutte le identificazioni, le esigenze, progressivamente si eliminano. Ciò che vi ha reso così felice un tempo, più tardi vi lascerà completamente indifferente. Ma non è una cosa da provocare.

Finché si è soddisfatti di avere un’auto rossa, una donna bionda, il corpo forte, un futuro, un passato, d’essere francese, bisogna viverlo. Un giorno quelle cose non vogliono più dir niente per voi.

Soprattutto non tentare di non essere niente, se no diventa un concetto come un altro. Evitate di diventare uno di quei famosi liberati che vivono in California o da qualche altra parte il cui ottundimento è tale che credono di vivere la luminosità.

Non essere niente non è una qualità, è una constatazione. Un pò come diceva il mio amico Virgil: “non posso pretendere di essere qualcuno”. La pretesa è di essere qualcuno. Non si tratta quindi di decidere di non essere niente. Un giorno, naturalmente, non vi sarà più necessario prendervi per Napoleone. Non avrete più bisogno di sentirvi esistere per vivere. Ma soprattutto non è per avere un’altra idea come: “ non sono niente”. Quella è un’altra fantasia.

 

D: Potreste parlarci di più della rinuncia? Questa settimana è la settimana contro il suicidio e mi interrogo molto quando vi sento dire, o così ho capito: “bisogna andare alla guerra e non rinunciare”. Dopotutto, quando si accetta di morire, si è portati ad abdicare. Se non voglio più vivere, rinuncio alla vita.

R: Bisogna accettare anche questo. Se qualcuno non può più affrontare la vita, non ha scelta. Certe persone non hanno la capacità di far fronte. Non si può mantenere in vita qualcuno a  tutti i costi, è un accanimento terapeutico. Se il suicida è disponibile al vostro aiuto, è evidente che lo soccorrete. Ma il suicido non è un fallimento medico. Si fa fronte come si può. Certe persone hanno bisogno di passare attraverso avvenimenti complessi. La settimana contro il suicidio è un simbolo tipico dell’ipocrisia della nostra società moderna, come la giornata delle donna, della mamma, del bambino, del cane, o la giornata contro la violenza. Questi avvenimenti mediatici presentati come filosofie democratiche di bon ton non servono che a iniettare  pace nella coscienza della nostra società, il cui rifiuto di mettere in questione i nostri meccanismi interni non è che un’espressione dell’arrivismo economico esistente.

 

D: Il suicidio non è un atto di rinuncia? Dire: “ no, non voglio più vivere”.

R: Essere felici di vivere non è una scelta più che non lo sia rinunciare alla vita. Chi può sollevare 120 chili di ghisa, non è superiore a quello che non ci arriva. Chi è incapace di compiere questo sforzo, non rinuncia; non può farlo. Ci sono persone che non hanno più la forza di far fronte alla vita, al dolore. In momenti più o meno lucidi, prendono la direzione del suicidio.

Bisogna essere presenti. Se la persona è disponibile, si assiste nella misura del possibile. Alcune persone sono al di là di poter essere aiutate. Quando incontrate persone che hanno certe malattie, non hanno la possibilità di essere aiutate. Il solo modo di aiutarle è di portarle in noi, nel nostro cuore. Non è perché qualcuno si è suicidato che tutto è finito, che bisogna pensare a qualcos’altro, andare al cinema… Si continua a essere con lui. Inutile battersi contro ciò che accade. Se c’è la guerra, non ci si batte contro la guerra. Si affronta la guerra. Quando qualcuno muore, quando qualcuno si suicida, non lo si rifiuta; lo si accompagna.

 

D: Conosco una persona che sta per morire. Un membro della sua famiglia vuole assolutamente prendere il suo posto, non vuole più vivere. Che posso fare?

R: Non c’è niente da fare. Quella persona ha una fantasia. Siate presente, amatela, ascoltatela. Se si ha lo spazio di dire, di fare, di toccare, fatelo. Se non è il caso, non prendetevela. Non siete responsabili delle persone che vogliono suicidarsi. Se potete aiutare, provate, se non è possibile, pazienza. Questo non deve impedire di dormire bene. Bisogna saper accettare i propri limiti.

Dappertutto persone muoiono ogni momento nelle più terribili condizioni. Forse che soffrirne li conforta? No. Se ci si mette in relazione con la situazione, con la vita nel suo complesso, è evidente che si fa ciò che si può. A volte non basta a impedire che qualcuno muoia o si suicidi.

Se consultate un astrologo e fa il tema della persona che si suicida, confermerà immediatamente l’inevitabile. Se fa il tema di una persona che muore in un incidente d’auto, verificherà anche questo. Non si vede alcuna libertà d’azione in questi fatti. Chi si suicida non interviene più di chi è investito da un camion. Non è una scelta volontaria da una parte e un incidente dall’altra. Non c’è né accidente né scelta. Succede unicamente ciò che è ineluttabile. Non si può qualificare una situazione normale e un’altra anormale. Tutto è normale.

Quando non si crea una storia su di una situazione, si percepisce che ciò che succede non è il frutto del caso. Il suicidio non è un evento eccezionale, non è separato dal resto dell’universo come un’anomalia. Le persone che si suicidano pensano che tutto si fermi, questa forse è un’idea falsa. A volte le persone non possono comprenderlo.

Quello che potete fare di meglio di fronte a uno che vuole suicidarsi, è essere felice, perché la felicità è contagiosa.