David Ciussi
3ème Millénarie n. 70 – Traduzione della Dr.ssa Luciana Scalabrini
La libertà interiore è uno stato naturale al di là dei pensieri. E’ geneticamente programmata nell’essenza stessa della vita. Molti lo sentono “per caso” in momenti di pace e di silenzio dove non manca niente.
Come rendere questa via di liberazione più
accessibile?
Il “gene della libertà” è codificato, si inscrive dall’eternità nel principio attivo di ogni cosa
manifesta. E’ invincibile, immortale ed eternamente presente. E’ al di là della vita e della morte. E’ uno “spazio senza
esilio” nel quale si dispiega “un tempo senza esilio” nel quale si dispiega “un
tempo senza morte”.
Per comprendere questo principio prendiamo
l’esempio dei geni: la scienza ha scoperto che noi li condividiamo con le
piante e gli animali, le loro marche sono solo diverse. Una continuità genetica
al di là delle specie ci è allora comune. Questa si
sviluppa in uno spazio di creazione e di distruzione che trascende il mondo
delle apparenze e delle differenze. Questa espressione di ciò che non cambia,
qui ed ora, dà la nascita al tempo e allo spazio. E’ un movimento che permette
all’eterna libertà di incarnarsi, “Io sono questo, qui e immediatamente”
D: Qual è la distinzione tra un pensatore
ignorante che ignora la propria libertà e un essere che conoscerebbe la verità
e la semplicità?
D: E’ la distinzione tra il cercatore
perduto e l’esploratore estasiato, felice. Il primo sogna di essere in esilio.
E’ impegnato a parlare delle sue tentazioni, le sue mancanze: dorme… E’ il
pensatore esiliato. Il suo mondo è abitato da attacchi,
difese, sofferenze, angosce. Attraversa il giorno come un sonnambulo la
notte. Passivo, si lamenta e crea la dipendenza dall’altro. L’altro è cosciente
della sua semplicità e del suo amore per
l’esistenza. Sa tornare all’immediato, veglia, è
libero interiormente. Attraversa il suo spazio di vita come un’esploratore entusiasta,,
naturale e silenzioso; così il suo tempo di vita non è uno spazio orario
da riempire, è questo spazio/tempo d’eternità dove si dispiega l’autoconoscenza cosciente. Il suo pensiero puro guarda
costantemente l’eternità e il rapporto con il reale.
D: Voi dite che c’è un’etica gioiosa del
liberato; che ne è del pensatore?
David: Finché sogna i suoi dubbi e le sue alternative, soffre. A volte l’impazienza, la mancanza
d’onestà interiore, le scuse metafisiche, le credenze della cultura gli fanno
pensare che può eludere la perentorietà dell’etica spirituale. Le scuse di
fronte alle difficoltà del reale gli fanno sperare che il filo della libertà
sarà meno tagliente. E’ spesso l’ingenuità del neofita
che cerca scuse tra la voglia dì essere libero e il dovere, la responsabilità
che questo comporta.
D: Il “pensatore-viaggiatore” nel suo
viaggio da qui a qui (la liberazione) deve riapprendere
l’etica e la lucidità?
David: Nel cuore dello spirito della
scoperta, l’esploratore apprende e cresce in maturità. Il suo percorso
iniziatico e le sfide del reale gli serviranno ad attrezzarsi nell’incontro con
le sue vere paure. Coraggio, intrepidità, lealtà, pensiero-azione-soddisfazione
saranno i nuovi valori che dovrà far suoi. Vincitore sui suoi condizionamenti e
sulla sua mancanza di volontà, diventerà conduttore della libertà: dignità
nelle prove, riso e semplicità segneranno il suo rapporto con il reale.
Ma non illudiamoci, il filo del rasoio non
è un’amaca dove ci si culla con belle parole o risposte sdolcinate… Il
cammino non è fatto per i tiepidi che hanno costruito le loro credenze
su monumenti intellettuali.
Tuttavia le mie parole non
mirano a rendere il cammino della libertà drammatico. La natura della libertà è leggera,
gioiosa, non appesantiscono la farfalla nel suo volo, ma è necessario passare
dalla generalizzazione e dall’istinto a una lettura
lucida del cammino per non rischiare di
impantanarsi nelle impasse.
D: Come lasciamo l’istante cosciente, la
libertà per ritrovarci nella conoscenza mentale?
David: Attraverso l’identificazione del
soggetto con la conoscenza mentale. E’ l’origine e la sofferenza dell’uomo. Chi
sono originariamente sparisce gradualmente a beneficio
di ciò che so.
Dall’età della ragione, studiamo
letteratura, storia, geografia, scienze, politica ecc. Queste conoscenze
memorizzate non sono innate, sono trasmesse dagli altri. Questo sapere è
responsabile, senza che noi ne facciamo esperienza da noi stessi. Questo
principio d’acquisizione delle informazioni esterne come soluzione delle nostre
istanze interiori è automatizzato, generalizzato.
Diventiamo degli autonomi che si immaginano che ciò che sanno è più vero di ciò che
sono. Ne deriva, una sequela di
moralismi, di generalizzazioni, di giudizi, di veti e di evidenze
più o meno tenebrose, che ci colpevolizzano per non essere un essere di
libertà. Allora entriamo nel mondo di causa ed effetto, nel quale tutte le
spiegazioni e le alternative comportano i nostri
rinvii e giustificano il nostro stato “d’esiliati”. L’atto di separazione è
così attuato con un meccanismo di
surplus d’informazione esteriore a scapito del valore della autoconoscenza. Finito lo spirito di scoperta, di appetito di conoscenza e d’azione naturale di meraviglia
in se stessi, tutto è banalizzato, spiegato, razionalizzato e “pubblicizzato”.
D: In questo modo siamo parassitati
dai pensieri mentali, ma ne siamo coscienti?
David: No; come un pazzo sulla strada che
parla ad alta voce con persone immaginarie, ci parliamo,
dialoghiamo sottovoce con la nostra testa. Non c’è differenza che nel volume
sonoro… Siamo capaci di dare risposte automatiche,
senza riflettere, che non sono realiste. Solo un vago malessere ci rivela che
“forse” non sono giuste.
D: Per quale tocco di magia l’Ego (il
pazzo) impedisce la libertà e oscura la coscienza creando così la sofferenza?
David:
a) Per un pensiero immaginario proiettato
che drammatizza il futuro e fa rimpiangere il passato, eliminando così la
trasmissione e la conoscenza cosciente contenuta in ogni istante presente. La
conoscenza mentale rende solitari: divide, giudica, esclude, punisce.
b) Per le immagini di me che nascondono la
lettura intuitiva, simbolica, sacra e universale di noi stessi. Non resta del
sole interiore che un lucore smorto, giusto per vedere ed abituarsi alle
tenebre.
c) Per il linguaggio articolato che fa si che le parole siano prigioniere dello spazio-tempo. Esse hanno
una memoria, un contenuto. Non esprimono che la storia del mentale e la
ripetizione di sofferenze. Torre di Babele ineluttabile.
d) Per i pensieri che ostruiscono i canali
dei sensi. Questi non trasmettono altro che la frattura con l’esteriorità. C’è
un paesaggio esteriore (gli altri) e un paesaggio interiore (me) ma nessun
legame tra i due. Sono solo e isolato e “vedere” è sostituito da guardare,
“ascoltare” da intendere, “toccare” da guarire ecc.
e) Sul piano del comportamento, l’ego
(l’uguale) traveste la coscienza d’Essere immaginando di possedere il potere
creatore. Egli vuole:
D: Potete spiegarci la distinzione
tra la libertà interiore e la liberazione?
David: La liberazione è come una
madre in una attitudine dinamica di aprire sempre il
cuore e le braccia; la libertà interiore individuale è il gesto del bambino
che, aprendo le braccia a sua volta, si lascia abbracciare.
Si tratta di un atto da
compiere; scegliere la libertà, e farlo al di là d ogni attesa passiva e
del chi-vive istintivo. Lo scopo del nostro destino è di liberare la nostra
libertà nel cuore di questa corrente universale. Questa partecipazione è
esploratrice, ludica, dinamica, giusta attenzione e attenzione
senza un “affaticamento psicologico”. Questa corrente universale genera amore e
libertà infinita. Ci porta come un fiume porta una
barca. Questa corrente ci porta perché ne diveniamo coscienti, non ci porta
come un ramo morto, come se fossimo dei dormienti incoscienti d’essere.
D: Il nostro destino è dunque di
viaggiare nella corrente della liberazione e la nostra partecipazione
individuale e attiva è un “fare partecipare” nello spirito della scoperta?
David: Si,
restiamo nell’analogia del fiume: in un recente atelier-avventura nelle Lande,
la corrente del fiume ci ha insegnato questa distinzione tra un lasciar-fare
passivo dove non c’è niente da fare e un fare-condurre nella corrente che ci
porta. Se siamo in una barca
senza utilizzare i remi la corrente ci porta dove
vuole. Siccome il fiume è sinuoso, sparso di tronchi, di sassi e banchi di
sabbia, la nostra barca corre un vero rischio di rovesciarsi o di restare
impigliata in questi ostacoli contro corrente.
Praticamente cosa abbiamo imparato e qual è l’arte di
condurre la libertà?
·
Condurre
la barca non vuol dire lasciarsi portare dalla corrente, ma dirigere la propria
condotta.
·
L’azione
di dirigere di fronte agli ostacoli deve essere immediata. E’ importante essere
totalmente presenti, vigili, attivi. Ogni ritardo all’adattamento alla corrente
fa andare la barca alla deriva e accresce il danno. Invece, se l’adattamento
alla corrente e agli ostacoli è immediata, lo sforzo da fare è facile e
divertente.
·
La barca
deve essere diretta e andare un po’ più veloce del movimento del fiume perché
ci sia padronanza. Là entriamo nel piacere individuale
d’essere liberi e partecipiamo alla gioia d’esserne coscienti. La
libertà è liberata. Aggiustarsi nel senso della corrente diventa allora un
piacere fluido, intelligente e creativo. Quando questo
gioco s’inventa nello spirito della scoperta, senza “fatica psicologica” né
identificazione ristretta alla nostra produzione mentale, è sorprendente
rendersi conto che è il fiume che gioca con noi. Tutto s’inverte allora in un
grande scoppio di risa. La vita universale gioca attraverso la coscienza
individuale, è “Io sono quello” che
gioca con “io sono qui”. La sensazione del sorgere
della libertà procura un sentimento di invincibilità
semplice d’essere il vincitore dell’istante presente.
·
Questo
favorisce un’armonia a livello del corpo, delle emozioni, della mente come la
relazione con il reale, unità ritrovata dal giusto
atto d’Essere.