Michel Cazenave

Scienza e Mistica: verso una ragione infiammata

 

3ème Millénaire n. 79 – Traduzione della Dr.ssa Luciana Scalabrini

 

 

 

3M:  Nel colloquio di Cordova, vi augurate che emerga la necessità urgente di una nuova epistemologia. Dov’è oggi questo progetto che vorreste si compisse? Che cammino avete fatto poi?

M.C.  Farei subito una  prima precisazione, dicendo che non ho affatto scelto quel percorso, ma che lui ha scelto me.

 

Noi conduciamo la nostra vita meno di quanto la cultura ci ha insegnato a pensare.

 

 E’ vero che il colloquio di Cordova rimane l’elemento fondamentale, ma da 20 anni cerco di mettere in atto questa nuova epistemologia. Gran parte del mio lavoro consiste nel tornare sulla rottura che ebbe luogo nella Cordova nel dodicesimo e tredicesimo secolo, al tempo de Averroè, quando la ragione e la mistica si sono separate una dall’altra. Ciò che dunque cerco di fare, nello spirito della nostra antica tradizione occidentale, nella tradizione neoplatonica, è mostrare che ragione e mistica non si escludono l’una con l’altra. Al grado massimo del pensiero, basta citare Plotino, per vedere che siamo sia mistici che razionali. E’ una meta importante, nella vita, trovare l’unità dell’essere, l’unità del mondo, o più lontano l’Unicità dell’essere e ancora al di là, tuffarsi nell’abisso ancora prima che ci sia una qualsiasi unità, cioè ai limiti dell’Inconoscibile che noi non possiamo che tentare di sperimentare  senza  neanche poterne parlare.

 

3M. Come vi ponete come occidentale che aspira all’Inconoscibile? Quali sono le vostre fonti spirituali e culturali in occidente?

M.C.  Pur essendo molto attirato dal pensiero dell’India, assumo l’eredità della mia tradizione occidentale, però con beneficio d’inventario, in seno alla mia propria cultura. Così quello che mi parla è il platonismo, il neoplatonismo e le loro conseguenze nella teologia cristiana, che sono la teologia negativa e la teologia apofatica, fino alla grande teosofia tedesca con Jacob Boehme, la grande filosofia tedesca romantica con Schelling fino alla psicologia moderna generalmente mal compresa di C. G. Jung. Questo è il mio modo d’assumere la mia eredità occidentale, in una linea di pensiero o scienza; razionalità e mistica sono alla pari, permettendomi ugualmente di intrecciare il dialogo con altre culture, come la Kabbala ebraica, la Gnosi islamica e evidentemente i grandi testi delle Upanishad.

 

3M. La maggioranza  delle spiritualità di questo inizio del ventunesimo secolo allontanano l’incontro della fede e della ragione, distaccandosi, solo e semplicemente, da quest’ultima. Voi insistete sull’importanza di quest’incontro. Perché l’uso della ragione vi sembra così fondamentale?

M. C.  L’uso della ragione è un potere discriminante e si dimentica troppo facilmente che un pensatore come Shankara fu l’equivalente indiano d’un Hegel o di un Kant. Il canone pali buddista ha un trattato di logica difficile da eguagliare in occidente. Lì l’uso della ragione è straordinariamente forte. Non attraverso un Oriente in paccottiglia che cerca di sbarazzarsi della ragione.

Tuttavia quello che mi interessa della ragione è di spingerla fino alla fine, fino al momento in cui incontra i suoi limiti; perché c’è un al di là delle sue frontiere che è dell’ordine dell’esperienza intima. Bisogna distinguere l’attitudine irrazionale, che rifiuta la ragione e apre la porta a tutti i deliri, e il fatto d’essere “transrazionale”. Fondamentalmente  ai miei occhi la ragione è necessaria senza essere sufficiente; l’uso della ragione è una tappa in cui la ragione chiede di essere superata  attraverso i suoi propri mezzi interiori.

Nel “Trattato della via di mezzo”, Nagarjuna mostra per esempio che, adottando una certa ipotesi, le conseguenze sono  insostenibili, così come adottando l’ipotesi contraria. Si crede generalmente di comprendere, dicendo che con del bianco e del nero si ottiene del grigio, mentre non si tratta affatto di questo; con un uso rigoroso delle sue capacità intellettuali Nagarjuna tenta di farci rinunciare ad ogni questione metafisica insolubile.

Quando S. Agostino parla dell’incendio della ragione, testimonia quel momento in cui essa è obbligata a rinunciare a se stessa; ma non rinuncia a se stessa che nell’esercizio sovrano di ciò che essa è!

Quando proviamo a riunificare il campo della conoscenza e quello della esperienza, ci sospettano di irrazionalismo, e questo è un modo per sbarazzarsi del problema. Tengo a precisare fermamente che non si tratta di irrazionalismo, ma al contrario di “transrazionale”, che implica che abbiamo attraversato la ragione e che ce ne siamo serviti fino al momento in cui realizziamo che non è attraverso il pensiero che abbiamo una visione “definitiva” delle cose.

 

3M.  Questo è tornare alla sorgente stessa della ragione…

 

M.C.  Certo. In qualche modo la ragione si chiude su se stessa. A meno che non giri in tondo indefinitamente! In ogni caso non possiamo sfuggirvi che attraverso l’alto. La mia formazione in psicanalisi mi fa dire che è nell’ordine della progressione, non della regressione. Mi sembra importante precisare questo punto perché sento spesso presentare la nozione di ritorno alle origini in termini di regressione, di  “grande nostalgia”, di ritorno al ventre della madre; è al contrario qualcosa che si conquista: un ritorno dove l’origine e la fine si ritrovano…

 

3M.  …Con una trasformazione dei nostri mezzi di conoscenza?

M.C.  Assolutamente! E non solo dei nostri mezzi cognitivi, ma anche di noi stessi. Perché non ci serviamo impunemente di questo o quel mezzo, ma c’è l’accordo che abbiamo profondamente con essi. Andare fino al di là della ragione implica principalmente tutto un lavoro interiore; non si tratta di un puro gioco concettuale.

 

3M. Il vostro cammino è quello di una passione che si scopre…

M.C. Si, quello che chiamo la “ragione infiammata” . Quando vi dico che questo cammino mi ha scelto, voglio dire che quella passione mi ha sempre abitato, passando evidentemente per stadi in cui si approfondisce e si sviluppa…

Questo può sembrare contraddittorio, ma credo che, profondamente, scegliamo il nostro destino. Pertanto, per essere onesto, bisogna ben dire che passiamo anni della nostra vita a cercare come girargli attorno per non rispondergli; fino al momento in cui scegliamo senza scelta, di dire infine si a quel destino. Ed allora uno è  libero.

 

Quell’accettazione si opera attraverso prove e un lavoro su se stessi, contrariamente al discorso idilliaco dello “sviluppo personale”, per il quale la vita deve diventare sempre più confortevole.

 

3M. Ma noi siamo frammentati, e un lavoro d’integrazione non è prima di tutto necessario?

M.C.  Siamo un corpo disperso che se deve riunificare. Ciò che è difficile è vedere che quella riunificazione non può effettuarsi che in rapporto a un vuoto centrale; perché alla fine è quel vuoto o quel niente che è il più ricco! Noi abbiamo sicuramente l’idea che il centro che dobbiamo trovare è pieno, che abbiamo un asse attorno al quale possiamo girare… Solo, ecco, il perno è mancante…e fortunatamente lo è! Credo certamente che l’Atman esista, ma non è un’immagine mentale di un asse che ci trapassa il cuore, che mi porta a pensare pieno e vuoto al tempo stesso.

 

3M. Quello è un meraviglioso atto di fede!

M.C. Si, se si riconduce la fede alla sua etimologia, la “fides”, da dove viene la fiducia. La credenza, il credere, porta alla credulità…

 

3M.   E in Platone al mondo dell’opinione.

M.C.  Dio ci liberi! Ma noi abbiamo sempre tendenza a ricadere nelle opinioni comuni e nelle credenze, quando la strada diventa troppo pesante.

Però, non si scherza con la passione, a meno che non si ricada in quella che chiamerei una “nevrosi spirituale”; perché penso davvero che ci siano nevrosi di quel tipo, che si basano sul rifiuto dello spirituale; e su questo punto sono molto junghiano. Tanto che penso che una vera psicologia supera se stessa per sfociare nella spiritualità o per essere un’apertura a ciò che è di tipo spirituale. Secondo Jung, il vero soggetto è il Sé. Dovendo il me essere superato, non essendo che uno strumento della vita sociale e lo specchio incarnato del Sé.

 

3M.  Come giustificare il lavoro prevalente della ragione?

M.C.  Ci sono molte tappe. A tutta prima quella del sapere minimo: conoscere i rudimenti dei testi spirituali. Non bisogna dimenticare che il sapere e il sapore hanno la stessa origine. Così, il sapere è il gusto di qualcosa d’altro; e il vero sapere è ciò che va oltre se stesso. Ma allo stesso tempo, non si può nemmeno domandare a qualcuno di avere un discernimento spirituale, quando è alla ricerca della spiritualità, perché quello implicherebbe che già avesse gli strumenti del luogo verso cui va…

Il superamento della ragione non è la sua distruzione.

Molte persone hanno adottato il termine indiano di “mentale” senza vedere esattamente ciò che significava nella sua filosofia d’origine. C’è un fortissimo processo di regressione quando si dice “i danni del mentale” per esaltare l’autenticità dell’esperienza che viene dall’emozione bruta e immediata. E’, da una parte confondere gravemente l’emozione e l’estasi, e , dall’altra ricondurre al mentale tutto quello che è di tipo razionale e del discorso argomentato e strutturato. E’ approdare all’odio del pensiero. Non ho mai considerato le Upanishad una distruzione del pensiero, ma come il suo superamento secondo una logica a quattro termini, o per il fatto che la figura dell’ossimoro (l’oscura chiarezza, ecc.) vi sia utilizzata frequentemente; ma tutto questo è precisamente la loro ragione d’essere! Le Upanishad non provengono dal delirio incoerente di una persona che ha rinunciato alla ragione!

In Shankara  ci sono dimostrazioni metafisiche splendide. Ed è lì che la ragione rimane ai miei occhi il primo gradino della scala verso la mistica, quello che non possiamo saltare senza cadere.

Per molti  sembra faticoso  pensare o ragionare; è non riconoscere la gioia che ne possiamo trarre; gioia più grande quando arriviamo a capo del nostro pensiero, là dove bisogna passare a tutt’altra cosa! Quando parliamo di ragione e di fede, o di scienza e di mistica, si tratta d’una congiunzione di opposti che presuppone una differenziazione preliminare

 

3M. Per fare questa differenziazione, non bisogna che la ragione sia auto-distinta o compresa da sé, cosciente di sé?

M.C. Si, bisogna che il pensiero si abitui da solo, perché è allora che diventa cosciente di non essere sovrano.

Così, la scienza occidentale non si rende conto del mondo nella sua totalità, ma unicamente del mondo materiale o del mondo sensibile nel quale viviamo, ciò che non esclude alcun altro modo di realtà. D’altra parte, ciò che mi colpisce, è vedere a che punto il modo di pensare, che è diventato dominante da noi, sia orizzontale, come riduca la realtà al solo modo che ci è immediatamente accessibile.

Ricordo il dialogo straordinario che avvenne tra Jung e  Schrodinger, nel 1946. Jung disse al fisico: “Ma allora l’anima, l’avete messa da parte?”. E Schrodinger rispose: “Certo, perché questo ci ha permesso  di fondare la scienza”. Ma Schrodinger, che studiava i Veda, era molto cosciente di quella situazione; sapeva che, escludendo l’anima, avremmo finito per credere che non esistesse. Ora, mettendola da parte tra parentesi, non possiamo evidentemente trovarla sotto lo scalpello. La scienza è estremamente potente al livello che è il suo, ma che non è il solo legittimo.

 

I fisici o i cosmologi con cui lavoro, sono i primi a constatare l’impossibilità, per la scienza, di rispondere a certe questioni fondamentali. E’ un bello scacco della ragione!

Mentre la scienza aveva pensato di spiegare tutto congedando la metafisica, essa scopre che non si può farne a meno.

 

A mio parere, c’è una certa similitudine tra l’approccio di molte cosmologie contemporanee, per cui l’universo sarebbe nato da una transizione dalla fase del vuoto, e la teologia mistica di Denys l’Areopagita. Ciò che mi interessa non è però di concludere frettolosamente per un’identità, Ma di constatare che  le strutture di pensiero sono le stesse. E ciò che mi pare importante, è che la scienza contemporanea ricade sulla nozione d’inconoscibile, nel momento in cui è obbligata ad arrendersi.

 

3M. Che vuol dire che per arrivare a una “ nuova scienza”, bisogna che gli scienziati, il cui mezzo della ragione è spinto al suo culmine, possano infine rivolgersi alla mistica…

M.C. Ciò che spesso consiglio loro, è di fare almeno della metafisica;  e quando li rimando a Plotino o a Pseudo-Denys, è la teologia mistica che suggerisco. Con le domande che essi si fanno, constato regolarmente che quei cosmologi sono dei profondi metafisici senza saperlo. Penso per esempio alla teoria elettrodebole, che è l’unificazione tra la forza nucleare debole e la forza elettromagnetica; ne parlavo di recente con Michel Cassis, che mi dice: “Questa teoria che ci permette di calcolare, non deve assolutamente essere vera”. Gli domando perché, lui mi risponde: “Perché non è bella!”. Aveva perciò l’idea che, matematicamente, una teoria per essere vera deve essere bella. E molti teorici considerano che la bellezza è un criterio di verità… Si dimentica facilmente che Godel, il più grande matematico del ventesimo secolo, ha scritto una dimostrazione matematica dell’esistenza di Dio che, quando la si esamina da vicino, si rivela essere di fatto la messa in forma matematica della famosa prova ontologica di S.Anselmo di Canterbury.

Infatti storicamente tutti i grandi matematici hanno avuto un’intuizione del divino; sono tutti convinti che la matematica sia il linguaggio di Dio quando si rivela fuori da se stesso.

Noi abbiamo completamente dimenticato che, nei pitagorici e neo-platonici, la matematica era una potenza dell’anima.

Perché le matematiche sarebbero così efficaci se non appartenessero a un mondo intermedio, che permette di rendere conto, con le equazioni, di ciò che accade nel mondo sensibile? E’ quello che avevano capito i neo- platonici. E matematici come Godel o Cantor con la teoria degli insiemi, ci credevano profondamente. Quest’ultimo ha stabilito che non si può pensare l’infinito senza pensare il vuoto o lo zero. L’infinito secondo lui è Dio e l’infinito manifesto è il transfinito. E si dimentica ancora che la teoria degli insiemi si basa teologicamente sull'esistenza di Dio. Ciò che mi pare straordinario, è che l'infinito attuale non è possibile se non attraverso il vuoto e lo zero. Credo che non si siano tratte tutte le conseguenze di quel tipo di pensiero.

 

3M.  Pensate che nel senso platonico del termine, il mondo sia matematico?

 

M.C.  Si, lo penso profondamente. Ma bisogna comprendere che la matematica platonica, per definizione, è una metamatematica. E che non si pensi a una sostituzione di una teoria con un’altra!

Si afferma spesso per esempio che Einstein ha dimostrato che la concezione di Newton era falsa, mentre in realtà Einstein dimostra che lo spazio-tempo di Newton corrisponde alla curvatura zero dello spazio-tempo nella teoria della relatività generale. Si tratta di un superamento d’una teoria con un’altra più ricca che riporta la concezione anteriore in uno statuto particolare. Lo spazio euclideo di Newton non è falso. Ci viviamo approssimativamente dentro ogni giorno! Ma non è che un caso particolare di una teoria più generale che si evolve oltre.

 

3M.  Come vedete l’unificazione della conoscenza

M.C.  Penso che se non riunifichiamo l’insieme delle conoscenze umane, andiamo verso la catastrofe. Ma la questione che si pone è come reintrodurre un pensiero tipo quello di Shankara o di Plotino, un pensiero che non si riunisce con amalgami, ma con articolazioni di piani differenziati di realtà, qualunque sia il principio di quella differenziazione. Per me è la posta maggiore dei nostri giorni; le questioni ecologiche sono poste altrettanto vitali, per la semplice ragione che, se la specie umana scompare, i problemi che poniamo non avranno più ragione d’essere. Questo richiederà un cambiamento di paradigma totale del pensiero, vuol dire per me che si esca definitivamente dalla cultura occidentale e dalla cultura cristiana tradizionale, ciò che si sta largamente producendo.

Il cambiamento di paradigma passa anche attraverso la riscoperta della funzione simbolica, cioè per il riconoscimento che esiste uno spazio intermedio nel quale il Principio ultimo, inconoscibile, irrapresentabile e non partecipabile, si spiega con la sua manifestazione, pur velandosi, seguendo una modalità di pensiero paradossale. E’ quella funzione simbolica dell’immagine  che bisogna assolutamente ritrovare, per non restare nel regno idolatra dell’immagine che conosciamo attualmente. Perché è quella funzione simbolica che permetterà di assumere l’immagine e oltrepassarla al tempo stesso.